Avere diciassette anni non è facile, soprattutto se vivi a
Fort Rose, dove non succede nulla, e ti chiami Rainbow Day come me. Lo so, non
dire niente: l’idea del nome è stata di mia madre, una fotografa hippy con più
sogni che buon senso. La vedo poco, da quando mi ha piantata qui con mio
fratello e mio padre. Non che veda molto anche lui, dato che sembra aver messo
radici nel suo ufficio. Per fortuna a salvarmi ci sono il cinese che consegna a
domicilio, le storie che scrivo e Chloe, la mia migliore amica, alla quale
racconto tutto. O… quasi.
Okay, ho un segreto, ma a te posso dirlo. Nell’armadio,
accanto alla divisa scolastica, nascondo la mia collezione di abiti Lolita.
Vestirmi così mi fa sentire bene, ma lo faccio solo quando sono da sola, nella
mia camera o nel parco abbandonato vicino a casa.
Proprio lì, qualche giorno fa, ho incontrato un tipo strano,
Tristan, una specie di stalker col piercing al sopracciglio che non la smetteva
di farmi domande. Ha preso bene le mie riposte da stronza, comunque. L’ho
rivisto, e mi è piaciuto, ma se lo cerco di giorno sembra che non esista. E se
me lo fossi inventato? Se fosse solo un sogno, una creazione della mia mente?
Grandioso, Rainbow, sei messa così male da aver bisogno di un innamorato immaginario.
Patetico. Un momento… ma chi ha parlato d’amore?
L’autrice
Pamela Geroni crede di essere nata qualche secolo troppo
tardi, anche se smartphone e laptop sono prolungamenti delle sue braccia. Ha
un’anima british, un fidanzato che assomiglia a Harry (il principe, non
Styles), un doppio cognome con problemi d’identità e una dipendenza da tè
all’ultimo stadio.
Nel 2015 ha creato Last Century Girl, un blog e un
canale YouTube dove parla di libri, e di quello che ci gravita attorno.
L’Inghilterra non è la sua unica patria elettiva: come Rainbow, adora il
Giappone e ha un debole per l’estetica kawaii. Lolita in Love è
il suo primo (ma non ultimo!) romanzo pubblicato.
Non faccio nulla di che. Non mi spoglio nuda, mettendomi a
ballare al chiaro di luna. Mi siedo sull’altalena e respiro. A volte riprendo a
scrivere dal punto in cui mi ero interrotta nella mia stanza, facendomi luce
con una pila. Oppure leggo il libro che ho portato con me. O penso a tutto, e a
nulla, finché l’ultima traccia di
inquietudine si è placata e posso ritornare a casa.
No, non ho paura a starmene in piena notte in un parco abbandonato.
A Fort Rose non accade mai niente. Per ogni evenienza, comunque, ho con me uno
spray al peperoncino. Me l’ha regalato il nanetto, non so per quale ragione.
Forse ritiene che anche una città come la nostra sia vulnerabile senza un
supereroe a vegliare su di lei. In realtà, pur sapendo che sarei pericolosa
solo per me stessa, con quella bomboletta in mano, averla mi fa stare più
tranquilla. Mi è capitato di avvertire la fastidiosa sensazione di essere
osservata. Del resto gli alberi sono pieni di uccelli notturni, e una volta ho
scorto una civetta appollaiata su un ramo della quercia che sovrasta le
altalene. Tutto questo per dire che no, nonostante il mio aspetto romantico,
non sono una fanciulla suscettibile, che si spaventa per una sciocchezza.
Tuttavia, nell’istante in cui distinguo, nell’ombra, un paio
di occhi decisamente umani posati su di me, urlo così forte che credo mi si
squarcino i polmoni.
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